Scrivere, soprattutto quando ci si occupa di comunicazione a livello professionale, comporta delle responsabilità.
Quello che racconto, gli argomenti che scelgo e le parole che uso devono potersi misurare con l’identità del cliente per cui sto lavorando, ma devono anche rivolgersi alle persone in modo corretto. Etico, vorrei dire.
Su come fare al meglio tutto ciò il dibattito è particolarmente acceso, soprattutto sul tema della comunicazione inclusiva. Nonostante sia positiva questa crescita di attenzione, nutro molti dubbi su alcuni dei risultati.
I miei dubbi riguardano soprattutto le soluzioni usate per trattare in modo corretto la distinzione dei generi, nell’ambito della comunicazione inclusiva. Se mi rivolgo ad un gruppo di persone, senza sapere se siano di genere maschile o femminile, posso usare il plurale maschile? Oppure è poco inclusivo?
L’italiano lo consente, quindi ovviamente potrei farlo. Certo potrebbe risultare poco inclusivo, anche se la percezione delle persone può essere molto diversa. Ma mi chiedo: davvero è questa la domanda?
Perché qui il tema non è la correttezza grammaticale, ma la comunicazione inclusiva e, in alcuni casi, anche la strategia di marketing. Se invio una mail automatica ad un utente, senza conoscere il suo genere, certamente potrei usare un maschile che tecnicamente va sempre bene, ma oltre ad essere poco inclusivo rende soprattutto la comunicazione molto fredda e non mi permette di raggiungere l’obiettivo.
Il problema quindi è chiaro. Bisogna trovare il modo.
Il risultato, però, non possono davvero essere gli asterischi, che sostituiscono l’antico “a/o” (Gentile signore/signora…)
Ecco, l’idea che per risolvere la questione io debba utilizzare un asterisco che annulla l’indicazione di genere (signor*) è, a mio parere, di una tristezza senza fine.
E mi domando ancora: davvero questa comunicazione è inclusiva?
No, io credo che una comunicazione che ragiona ad asterischi non sia inclusiva, sia solo fredda, triste e priva di fantasia. Non definisce le persone in base al loro genere, è vero, ma sembra non rivolgersi più a persone, ma a numeri che non vogliamo classificare. La lingua è uno strumento prezioso, da utilizzare con attenzione e un po’ di creatività. Quindi, se chi si occupa di comunicazione non vuole accendere almeno un po’ questa lampadina, allora siamo davvero nei guai.
Faccio qualche esempio?
Se devo inviare una mail di conferma per l’avvenuta registrazione ad un sito, non posso credere che il dubbio sia se scrivere “Benenuto/a”, “Benvenuto” (indipendentemente da tutto) oppure “Benvenut*”.
Se il mio lavoro è occuparmi di comunicazione, dovrò pur trovare il modo per scrivere “Siamo felice che tu sia qui!”
Questa soluzione funziona non solo perché è inclusiva, ma anche perché è calda, stabilisce un rapporto con l’utente, si rivolge ad una persona reale e non ad una casella che deve avere una crocetta su “maschile/femminile”.
E ancora. Se scrivo i testi per un’app di edutainment per dei bambini, alla soluzione del gioco non scriverò né “Bravo”, né “Bravo/a” o altro. Proverò a trovare un altro modo per festeggiare il successo, come ad esempio “Ottimo lavoro, sapevo che avresti fatto del tuo meglio!”.