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Professioni al femminile

Quali sono le motivazioni che spingono le donne a declinare al femminile la propria professione oppure ad esprimerla al maschile?

Scegliere quali parole usare è un gesto carico di significato, soprattutto quando ci si muove in un contesto delicato e problematico, come quello del ruolo della donna nella società e nel mondo del lavoro. In questi ultimi giorni, è stato un attimo e si è quasi creata una rissa grazie anche all’imminente ricorrenza della Festa Internazionale della Donna, all’eco mediatica che gravita intorno ad alcuni spettacoli e alle recenti dichiarazioni pubbliche di alcune donne note.

Facciamo un passo indietro. Sul palco di Sanremo, Beatrice Venezi chiede di essere chiamata “Direttore d’orchestra” e non direttrice. L’affermazione accende una polemica che non è certo nuova e che annovera varie e diverse posizioni. Mi piacerebbe cercare di fare un po’ di chiarezza e dare anche una mia visione, tanto che ci siamo.

Da un punto di vista grammaticale, la lingua italiana non prevede il genere neutro e richiede quindi di utilizzare il maschile e il femminile, a seconda dei casi. Quando un genere non è specificato, perché il termine è usato in modo astratto o perché si tratta di un plurale che comprende entrambi i generi, si usa il maschile. Questo significa che la declinazione al femminile di una professione è sempre consentita e non è mai una forzatura, al massimo può suonare come inusuale, ma per questo problema l’unica soluzione sarebbe quella di usarla più spesso.

Da un punto di vista culturale, la lingua italiana si trova a fare i conti con una tradizione fortemente patriarcale, difficile da archiviare. Per molte professioni, esiste una normalissima declinazione di maschile e femminile: impiegato e impiegata, professore e professoressa, dottore e dottoressa, autore e autrice, imprenditore e imprenditrice, operaio e operaia. Ci sono poi professioni che si avvalgono già di nomi che non hanno un vero e proprio genere, ma che rimangono invariati nell’utilizzo del maschile o del femminile: artista, giudice, cantante, regista, autista, pilota, alpinista. Sono termini che variano nell’articolo, ma rimangono identiche nella parola stessa. E poi ci sono quelle professioni che non si sono mai declinate al femminile, solo perché non ce n’è mai stato il bisogno, in quanto erano appannaggio esclusivo di uomini: ministro, sindaco, avvocato, ingegnere, architetto, e moltissime altre.

Volendo, si potrebbe proseguire con l’analisi fino a considerare quelle professioni che assumono una sfumatura diversa, declinate al maschile o al femminile. Ad esempio, maestro fa pensare ad un punto di riferimento di un intero settore, maestra ad un’insegnante delle scuole primarie.

Poi c’è un punto di vista ideologico. Visto che stiamo prestando molta attenzione alle parole, è bene sottolineare che uso il termine “ideologico” nel suo significato originario e senza quindi appesantirlo di accezioni positive o negative, ma in quanto insieme di idee che consentono ad un gruppo di persone di offrire un’interpretazione della realtà. Ecco, da un punto di vista ideologico scegliere quale parola usare, ad esempio tra direttore e direttrice, è importante.

Le donne che declinano al femminile la propria professione, lo fanno per sottolineare il proprio genere e il fatto di aver raggiunto un ruolo e una posizione che non deve essere considerata solo maschile. Rivendicare l’uso del femminile, sul piano linguistico, significa affermare il ruolo del femminile sul piano sociale, politico e culturale. Un gesto importante, carico di significato. Spesso viene considerata una forzatura, ma come abbiamo visto non si tratta di una forzatura grammaticale, al massimo è una forzatura culturale e quelle spesso e volentieri sono necessarie.

Ma chi, come Beatrice Venezi, non desidera declinare la propria professione al femminile? Perché lo fa? Ho trovato fastidioso e un po’ offensivo il sotto testo che ha accompagnato e ideologizzato (e qui lo dico in termini negativo!) la scelta. Chi l’ha sostenuta, ha rivendicato l’inutilità di certe battaglie, che invece inutili non sono. Chi l’ha criticata, l’ha accusata di non rendere giustizia alle battaglie del femminismo che hanno permesso ad una donna di ricoprire quella posizione e di non essere relegata ad un ruolo subalterno. Ma non è quello che lei ha affermato.

Forse c’è dell’altro, forse l’interpretazione data non è quella corretta.

La volontà è quella di non assegnare un genere ad una professione, ma di mantenerla neutra. Si tratta di un ruolo, di un mestiere, non conta che sia svolto da un uomo o da una donna. Rivendicare l’uso del maschile nella sua applicazione neutra significa andare al di là delle differenze di genere e provare a immaginare un mondo dove conti solo la competenza e non il fatto di essere maschio o femmina.

Ora però, è giusto che io racconti anche come la penso a livello personale.

Innanzi tutto penso che ogni donna abbia la piena libertà di definirsi come meglio ritiene. Questa dovrebbe essere la premessa di tutto il discorso, la base stessa di tutta la battaglia, ma non sempre è così.

Secondariamente, mi piacerebbe molto che in italiano esistesse un genere neutro da utilizzare per ruoli, posizioni e professioni. Lo userei di sicuro, ma non c’è.

Sul piano strettamente personale, mi accorgo di definire il mio ruolo al maschile e me stessa all’interno di quel ruolo al femminile. Nel mio caso è forse un po’ complicato, perché il nome della mia professione è in inglese, ma di fatto potrei dire che “il copy dell’agenzia sono io” così come potrei presentarmi dicendo “buongiorno, io sono la copy”.

La cosa principale è avere consapevolezza delle parole che vengono usate. Le parole sono importanti e il linguaggio permette di raccontare un mondo, ma anche di dargli una forma. È una responsabilità che ognuno di noi deve sentire di avere e deve usare con attenzione. Anche perché il linguaggio è in continua evoluzione e siamo noi a farlo cambiare, portandolo nella direzione in cui vogliamo cambi il nostro mondo.

Quindi, quando una donna – e in generale una persona – definisce se stessa, bisogna innanzi tutto ascoltarla e riconoscerle il diritto di farlo. Potremmo non essere d’accordo, potremmo non sentirci rappresentati dalla sua scelta, ma sarà sufficiente prendere decisioni diverse per noi stessi e chiedere che vengano, anch’esse, ascoltate e riconosciute.


Photo by freestocks on Unsplash

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